Filippo Zucchetti, cantautore e artista introspettivo, ha sempre cercato nella musica una via per esplorare se stesso e il mondo che lo circonda. I suoi testi, che raccontano storie intime e profonde, sono il risultato di una continua ricerca di autenticità e di comprensione, non solo dell’esistenza, ma anche della sua personale evoluzione. In questa intervista, Filippo ci parla del suo ultimo singolo ’Anita non deve piangere’, del valore dell’indipendenza artistica, e della sua riflessione sull’autenticità, sia nella musica che nella vita. Ci svela anche come il silenzio interiore e la meditazione siano diventati strumenti fondamentali nel suo percorso di crescita e composizione, e come la sua vulnerabilità e le sue fragilità si riflettano nei suoi brani più significativi.
Sei un cantautore profondamente introspettivo; quale parte della tua personalità emerge di più nei testi delle tue canzoni? Pensi che ci siano aspetti di te che ancora non hai esplorato artisticamente?
Scrivere un testo per me è un modo per cercare di capire la realtà esterna e di capire me stesso. Si tratta di una ricerca, a volte una sperimentazione, un tentativo per comprendere l’esistenza. Nei miei testi trovate la mia parte più vera, la più autentica, quella che nel brano “Anita non deve piangere” definisco la “nostra parte migliore”. Se mi cercate, sono nelle mie canzoni. Penso che l’esplorazione artistica non debba mai cessare. Sarebbe un grave errore pensare di conoscersi e ritenere quindi di avere concluso la ricerca su se stessi, se non per il solo fatto che mutiamo continuamente; Filippo di oggi è diverso dal Filippo di tre anni fa che a sua volta era diverso da quello di dieci anni fa.
Nella tua musica, c’è una continua ricerca di autenticità. Qual è la tua definizione di autenticità e come riesci a mantenerla nel tuo lavoro, soprattutto in un settore dove le aspettative commerciali possono essere forti?
Essere autentici, in ambito artistico, significa non dover compiacere nessuno e non perseguire scopi diversi dalla realizzazione dell’opera stessa (nel mio caso, la canzone). In altre parole, sono autentico quando sono libero dall’obbligo di piacere a tutti i costi e dalla brama di successo. Questi due aspetti possono al massimo essere conseguenze, ma mai obiettivi. Pur di non compromettere la mia autenticità, preferisco rimanere completamente indipendente, accettando il prezzo da pagare: non poter vivere della mia arte.
Hai parlato dell’importanza del silenzio interiore. Ci sono pratiche o rituali specifici che utilizzi per facilitare questo silenzio, o sono più intuitivi e spontanei nella tua vita quotidiana?
Adotto una pratica tanto semplice quanto efficace: la meditazione. Mi concedo qualche manciata di minuti al giorno di totale silenzio da fattori esterni e interni. Si tratta di una delle pratiche più democratiche che esistono perché non costa nulla, tutti la possono fare, non ha controindicazioni, non servono divise o attrezzature, doti o caratteristiche fisiche particolari e, se fatta con costanza, funziona. La consiglio vivamente a tutti.
Riflettendo sul tuo brano “Anita non deve piangere”, come riesci a bilanciare la vulnerabilità dell’essere umano con la forza della sua autenticità? Ci sono momenti nella tua vita personale che ti hanno insegnato questa lezione?
L’essere umano, meno è autentico e fedele a se stesso, più diventa vulnerabile. L’ho compreso nel corso della mia vita: i momenti in cui mi sono sentito più debole e insicuro hanno sempre coinciso con il mio allontanarmi da ciò che sono veramente.
La tua musica è un viaggio di autoanalisi. Come reagisci quando ti trovi di fronte a scoperte scomode su te stesso durante il processo creativo? Questo influisce sul tuo modo di scrivere?
Sinceramente fino ad oggi non mi è mai capitato di fare scoperte particolarmente scomode durante il processo creativo. Di certo tutti abbiamo delle fragilità ed è umano averle. Credo che esserne consapevoli, osservarle senza giudizio e mostrarle senza vergogna ci renda anche più veri ed empatici. Negarle invece, farsi vedere apparentemente forti e privi di debolezze, non fa altro che alimentarle ingigantendole.
Hai accennato a una certa critica nei confronti della didattica dell’arte. Quali esperienze personali ti hanno portato a questa visione? E come immagini un approccio alternativo all’insegnamento dell’arte?
Ho sempre visto l’arte come l’emblema della libertà massima; la sua caratteristica è l’irrazionalità, l’andare fuori dagli schemi, osare, dare sfogo totale alla creatività e all’immaginazione, liberare la parte più vera che abbiamo. Se tutto ciò viene incanalato con delle regole da seguire diventa razionale, schematico e tutto il suo senso viene meno. Quando vedo utilizzare metodi, schemi e tecniche precise per l’insegnamento dell’arte, provo la stessa sensazione di quando vedo un uccello in gabbia. L’unica cosa che dovrebbe fare un insegnante è intuire il potenziale dello studente, farlo venir fuori e svilupparlo. Tutto il resto imprigiona l’arte rendendola una fredda tecnica privandola del suo stesso essere. Suggerisco di leggere gli scritti di Mark Rothko riguardo l’insegnamento dell’arte.
C’è un artista, passato o presente, con cui ti piacerebbe collaborare o che consideri una fonte di ispirazione? In che modo questa collaborazione potrebbe riflettersi nel tuo percorso creativo?
In ambito musicale una collaborazione al momento non mi interessa. Mi piacerebbe collaborare con qualche regista in ambito cinematografico scrivendo una canzone per un film. Se poi quel regista fosse Paolo Sorrentino …
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