“Lo Zecchino d’Horror” di Marco Carena si distacca dalle sonorità tradizionali e si tuffa in un mondo ironico e provocatorio, affrontando temi scomodi e attuali con un sorriso amaro. L’album è una rivisitazione dark del famoso Zecchino d’Oro, ma con testi che esplorano il lato più oscuro e ironico della vita quotidiana.
Il disco prende spunto dal genere horror, un tema che ha sempre affascinato il pubblico in diverse forme artistiche, come film, libri e spettacoli. In questo progetto, Marco Carena esplora l’oscura realtà che a volte si cela dietro la facciata della vita quotidiana, riflettendo sul modo in cui troppe atrocità sono diventate parte integrante della nostra tolleranza sociale. Con il suo inconfondibile stile ironico, l’artista invita a una riflessione sulle problematiche moderne, usando il sarcasmo per parlare di argomenti scomodi e spesso ignorati.
Artisticamente, Marco Carena è stato conosciuto dal grande pubblico per la sua partecipazione, come ospite fisso per qualche stagione, al Maurizio Costanzo Show, in seguito alla vittoria di “Sanscemo ‘90 – 1° Festival della canzone demenziale” con il brano “Io ti amo… come una bestia”, che denunciava la violenza sulle donne. Questo spirito di denuncia, unito all’ironia, è sempre stato uno degli strumenti più potenti del cantautore per affrontare tematiche difficili. In modo simile al Festival di Sanremo, che celebra il “cuore e l’amore”, Sanscemo rappresentava il suo contraltare, con canzoni e temi che lì non avrebbero mai trovato spazio. E, proprio come lo Zecchino d’Oro si rivolge ai bambini con canzoni leggere, “Lo Zecchino d’Horror” si rivolge a quel “bambinone” che tutti portiamo dentro, chi più chi meno, e che a volte può causare danni nelle nostre vite e nella società. Vengono così rappresentati personaggi e situazioni dove l’onestà, la correttezza, i buoni sentimenti, il rispetto per la natura vengono allegramente ignorati per dare spazio alla nostra parte “orribile”. È un modo per invitare a guardarsi meglio attorno perché tutto questo esiste sotto spoglie talvolta neanche troppo celate.
Come hai lavorato alla composizione dei brani e quanto è stato complesso mantenere un equilibrio tra il lato ironico e quello provocatorio?
Stare in equilibrio tra umorismo e riflessione sulle tematiche scottanti è un esercizio di ginnastica mentale che dopo molti anni adesso mi viene abbastanza naturale. All’inizio non era così, infatti nel 1990 per scrivere “Io ti amo… come una bestia”, canzone che trattava il tema della violenza sulle donne e con cui vinsi il Festival di Sanscemo, mi ci volle un po’ per arrivare a trovare questo equilibrio che poi è diventato la mia cifra stilistica.
In questo caso si è aggiunto l’elemento del linguaggio “bambinesco” che prevede una certa semplificazione dei concetti che si vogliono esprimere e la ricerca delle figure più adatte a rappresentarli. Ma anche questo è stato molto divertente e stimolante.
L’horror è un tema che affascina da sempre. Quali influenze artistiche hai portato in questo progetto?
Personalmente non sono un amante del genere horror in senso stretto. Vi racconto un aneddoto che fa capire come reagisco a certe scene. Anni fa andai al TFF (Torino Film Festival) con una mia amica appassionata di cinema horror. C’era una scena in cui lo psicopatico di turno aveva scuoiato la vittima per farne un gilet da regalare alla sua amata. Nel momento in cui lui le presenta il “regalo”, lei, inorridita fugge via urlando e a quel punto qualcosa da dentro mi fece dire ad alta voce “Ma almeno provalo!” vi lascio immaginare la reazione… grandi risate. Da lì per noi il film prese tutta un’altra piega. Riguardo alle influenze artistiche, sicuramente, ho strizzato l’occhio alla “canzone per bambini” e mi sono divertito a giocarci con diversi generi: rock, latin, ballad, ecc. Lavorare con Marco Ravelli, fonico e produttore dei Pinguini Tattici Nucleari, è stato impegnativo ma anche molto divertente. Abbiamo lavorato sui suoni, sulle voci e sui cori, dove ho raggiunto tonalità in falsetto che mai mi sarei immaginato, infatti molti non credono che sono io a cantare.
Tra i temi affrontati, quale ti ha coinvolto maggiormente e perché?
Per motivi diversi direi “Nonno Kamikaze” e “Cha cha cha dello spacciatore”. La difficoltà in entrambe è stato sempre il solito: trovare il già citato equilibrio fra gli elementi: testo, musica e argomento, in modo che il tutto mantenesse un tono allegro e leggero senza indurre a fraintendimenti.
La prima non vuole certo essere un manifesto ideologico del sacrificio personale, ma semplicemente si rifa a quei film dove il protagonista, il “buono”, elimina tutti i – secondo lui – “cattivi” ricorrendo a qualunque mezzo, anche il più estremo. Mi sono detto: se può essere rappresentato nei film, anche di grande successo, perché non dirlo in una canzone?
La seconda nemmeno vuole essere un’istigazione all’uso di stupefacenti – anzi – tratteggia solo un personaggio ormai onnipresente nella nostra società, quasi fosse una parte integrante dell’arredo urbano, a cui moltissima gente, anche insospettabile, si rivolge; però attenzione: alla fine ci si ritrova tutti a “festeggiare”… in Comunità!
Guardando al tuo passato, sei stato un precursore nel trattare argomenti scomodi con ironia. Cosa è cambiato, secondo te, nel modo in cui il pubblico percepisce questo tipo di messaggi oggi?
Sicuramente riguardo certi argomenti c’è molto più il nervo scoperto, talvolta ai limiti dell’isteria collettiva. Questo porta a dare molta più importanza alla forma che ai contenuti. Per fortuna “Io ti amo… come una bestia”, quando la presentai nel ‘90, fu capita senza problemi per quello che era: una feroce denuncia in forma satirica di atteggiamenti sbagliati, violenti e assurdi, di certi uomini verso le donne, tanto che venne trasmessa da tutte le radio nazionali, anche da Radio Vaticana.
Sicuramente l’ironia, più ancora della semplice “presa in giro”, è un arma capace di arrivare dove altre forme comunicative non riescono ad penetrare. L’ironia riesce a forare quel muro che alcune persone alzano di fronte ad argomenti che possono mettere in crisi i loro principi e i loro credo. Speriamo non succeda come ne “Il Nome della Rosa” dove dei monaci arrivavano anche ad uccidere quelli che “indulgevano al riso”… spero di scampare alla moderna “santa inquisizione” come Frate Guglielmo, anche se mi vedo meglio come Adso.
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